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Decreto lavoro e «accomodamento ragionevole»: opportunità e dubbi

Pubblicato il 27/09/2013 - Letto 5672 volte
La recente Legge n. 99/2013 introduce l'«accomodamento ragionevole» (Convenzione dell'ONU) come criterio che il datore di lavoro deve avere per ridurre le cause di discriminazione del proprio lavoratore con disabilità. Questa novità è certamente importante, ma, se certamente apre spiragli di nuove opportunità per i lavoratori con disabilità, lascia aperti ancora molti dubbi. Sulla base di quanto recentemente scritto da Mario Conclave e Maria Cristina Cimaglia di Italia Lavoro su Superando.it, riportiamo una sintesi dei punti di forza e delle criticità dell'introduzione del criterio dell'accomodamento ragionevole nel diritto del lavoro italiano.

Lo scorso 28 giugno, il Governo Letta pubblicava il Decreto Legge n. 76 [link a sito esterno] in merito ad una serie di questioni tra cui gli interventi urgenti per la promozione dell'occupazione e per la coesione sociale. Il 9 agosto, con la Legge n. 99 [link a sito esterno], il Parlamento modificava e convertiva il Decreto Legge in legge ordinaria.

Il Decreto Legge n. 76/2013 - così come la Legge n. 99/2013 che lo converte - mette mano a molte questioni, tra cui quella del lavoro ed in particolare quella della parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro; argomento - questo - che riguarda da vicino anche le persone con disabilità.

La materia era già stata disciplinata dieci anni fa dal Decreto legislativo n. 216 del 9 luglio 2003 [link a sito esterno], che attuava la Direttiva europea n. 2000/78/CE [link a sito esterno] in materia di parità di trattamento lavorativo. Il Decreto del 2003, tuttavia, "ometteva" di disciplinare la materia riguardante la tutela del lavoratore con disabilità: in particolare, non prevedeva alcuna regola che ponesse in capo al datore di lavoro l'onere di adottare eventuali «soluzioni ragionevoli» per rimuovere le condizioni di discriminazione del lavoratore con disabilità.

Questa omissione, tra l'altro, costò all'Italia la condanna da parte della Corte di Giustizia Europea per non avere recepito «correttamente e completamente» l'articolo 5 della citata Direttiva della Commissione europea, che aveva disciplinato l'obbligo per i datori di lavoro di adottare «soluzioni ragionevoli» per le persone con disabilità nell'ambiente di lavoro (Causa n. C-312/11 [link a sito esterno], Commissione contro Repubblica Italiana).

Così, a giugno di quest'anno, il Parlamento italiano, durante le operazioni di conversione del Decreto Legge n. 76, aggiunge un articolo che afferma quanto segue:

«Al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli, come definiti dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, nei luoghi di lavoro, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori. I datori di lavoro pubblici devono provvedere all'attuazione del presente comma senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica e con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente».

L'articolo suddetto (il 9, comma 4-ter del Decreto Legge n. 76/2013) andrà così ad integrare l'articolo 3 del Decreto legislativo n. 216/2003 di cui diventerà il comma 3-bis.


Considerazioni

Rispetto all'articolo suddetto, ci sono molte osservazioni che meritano attenzione, poiché, se da un lato, l'intenzione della norma è quella di tutelare il lavoratore con disabilità dalle molteplici cause che lo potrebbero discriminare, dall'altro - senza alcuni doverosi chiarimenti - avvocati, persone e associazioni che volessero rivendicare l'applicazione di questa norma nelle opportune sedi legali rischierebbero di trovarsi di fronte un muro di eccezioni, fattispecie non regolamentate e, presumibilmente, una giustizia più teorica che pratica.

Sulla base del corposo articolo «Le novità del "Decreto Lavoro" dopo la condanna dell'Italia» [link a sito esterno] di Mario Conclave e Maria Cristina Cimaglia (esperti di Italia Lavoro) - pubblicato su Superando.it -, proponiamo una sintesi.

Partiamo dalla fine del nuovo articolo 3, comma 3-bis, del Decreto legislativo n. 216/2003: la conclusione del testo dell'articolo precisa, con una clausola, che ciò che il datore di lavoro potrà fare per attuare quanto serve per non discriminare il lavoratore con disabilità non dovrà avere oneri per lo Stato e non dovrà richiedere altro personale o altre normative a riguardo. Il rischio - come affermano Conclave e Cimaglia - è quello di un mero adempimento formale privo di effettività, in mancanza di necessari ulteriori provvedimenti interpretativi (ad esempio, un Decreto Ministeriale che disciplini più nel dettaglio la materia); e questo significa probabili contenziosi giudiziari.

Se da un lato, quindi, il fatto che il datore di lavoro non possa garantire parità di trattamento gravando ulteriori oneri sullo Stato produce, di fatto, una limitazione alla portata complessiva della norma, dall'altro, l'esplicito riferimento all'«accomodamento ragionevole» previsto dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti delle Persone con Disabilità (articolo 2, comma 4) apre il campo ad una materia che, fino ad oggi, è ancora povera di giurisprudenza e buone prassi a livello nazionale e sovranazionale. In altre parole, il diritto al lavoro delle persone con disabilità, sia a livello europeo che nazionale, deve essere uniformato ai princìpi contenuti nella Convenzione dell'ONU.

Altra nota rilevante è quella che riguarda la scelta del Legislatore italiano di far riferimento direttamente al principio dell'accomodamento ragionevole (con tanto di citazione della Convenzione dell'ONU) e non, invece, alla Direttiva della Commissione europea n. 2000/78/CE. La motivazione sostenuta da Conclave e Cimaglia è la seguente: se la legge italiana avesse fatto riferimento diretto alla Direttiva della Commissione, avrebbe dovuto aderire a quanto previsto all'articolo 5, in cui è precisato che il datore di lavoro, nel prendere i provvedimenti appropriati per garantire parità di trattamento al proprio lavoratore con disabilità, può adottare misure che, «allorché l'onere è compensato in modo sufficiente da misure esistenti nel quadro della politica dello Stato», non risultano sproporzionate.

Ed è proprio questo il punto che ha portato l'Italia davanti ai giudici della Corte di Giustizia Europea nel 2011. Infatti, c'erano due posizioni contrapposte:

  • la posizione dell'Italia era quella che sosteneva che l'attuazione della norma potesse avvenire anche mediante un sistema di promozione dell'integrazione lavorativa delle persone con disabilità, essenzialmente fondato su un insieme di incentivi, agevolazioni, misure e iniziative a carico delle autorità pubbliche e, in parte, su obblighi imposti ai datori di lavoro (in altre parole, un sistema che sarebbe il risultato della normativa già esistente in materia di disabilità e di collocamento mirato, e che, sul versante delle mansioni specifiche del datore di lavoratore, si sarebbe limitato alla normativa in materia di tutela della salute e sicurezza sul lavoro ed ai pochi obblighi previsti dalla Legge n. 68 del 12 marzo 1999 [link a sito esterno] sull'integrazione lavorativa delle persone con disabilità);
  • la posizione della Corte di Giustizia Europea, invece, sostiene che sia necessaria l'introduzione di un sistema di obblighi a carico dei datori di lavoro, che non possono essere sostituiti da incentivi e aiuti forniti dalle autorità pubbliche. In altre parole, gli Stati dovrebbero imporre a tutti i datori di lavoro l'obbligo di adottare provvedimenti efficaci e pratici, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, a favore di tutti i lavoratori con disabilità, che riguardino i diversi aspetti dell'occupazione e delle condizioni di lavoro e che consentano a tali persone di accedere a un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione.

Altro aspetto fondamentale del richiamo all'accomodamento ragionevole è quello che riguarda una sorta di nuova fattispecie discriminatoria, laddove ci sia da parte del datore di lavoro un diretto rifiuto del ragionevole adattamento.

In ogni caso, l'obbligo di porre in essere un adattamento ragionevole del posto di lavoro avrà ricadute non indifferenti nel nostro ordinamento su profili e aspetti diversi sia del funzionamento del collocamento mirato, sia della gestione del rapporto di lavoro. In particolare, si pone il problema di individuare parametri di riferimento che possano guidare nella sua definizione i datori di lavoro, i lavoratori e tutti quelli che, a diversi livelli, sono interessati alla materia.

Secondo Conclave e Cimaglia, non sarà facile la trasposizione di questi princìpi nel nostro ordinamento, poiché la giurisprudenza, in materia di adattamenti dell'ambiente di lavoro con riferimento alle persone con disabilità, ha sempre mantenuto un approccio poco incisivo sugli obblighi gravanti sul datore di lavoro: la natura di questi è stata ricondotta alla categoria della cooperazione all'adempimento, la cui estensione è stata rimessa ai princìpi di buona fede e correttezza, con il risultato che le modificazioni richieste al datore di lavoro si sono sempre limitate al singolo posto di lavoro e all'eventuale disponibilità di altre possibilità occupazionali in azienda, ma non hanno mai investito il complesso dell'organizzazione aziendale (cosa peraltro già prevista - almeno nel novero delle possibilità - nell'articolo 10, comma 3, della Legge n. 68/1999, ma che la giurisprudenza ha teso spesso interpretare in modo restrittivo, con l'esclusione di qualsiasi modifica sostanziale dell'organizzazione aziendale).

Al contrario, quindi, il nuovo paradigma antidiscriminatorio imporrà un ampliamento degli obblighi gravanti sul datore di lavoro e con ricadute in termini di onere della prova. Spetterà al datore di lavoro, infatti, provare l'impossibilità del ragionevole adattamento.

Un'altra importante questione che riguarda l'applicazione del principio dell'accomodamento ragionevole riguarda la definizione degli organismi deputati a svolgere un ruolo istituzionale nella sua definizione e nelle fasi di accertamento, nonché la determinazione di procedure e modalità operative con cui consentirne l'operato. Attualmente, infatti, è solo il Tribunale l'unico soggetto deputato a risolvere eventuali controversie.


Conclusioni

Concludiamo questo focus per ribadire - insieme a Conclave e Cimaglia - che nel momento in cui la nozione di accomodamento ragionevole diventa oggetto di dottrina e giurisprudenza, sempre di più sarà necessario individuare una metodologia "a rete" con la quale vengano individuati i soggetti erogatori di prestazioni e misure, che agiscano in interazione fra loro sulla base degli obiettivi di vita, dei diritti e dei bisogni della persona - prima ancora che lavoratore - con disabilità. Solo con la presa in carico globale e una valutazione dell'impatto sulla vita del lavoratore, si potrebbe anche dare evidenza degli oneri gravanti sul datore di lavoro e delle misure e dei finanziamenti da lui attingibili, consentendo così di avere dei parametri per la misurazione della ragionevolezza dell'adattamento richiesto.

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