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Dichiarazione dei Diritti Umani: Articolo 10

Pubblicato il 4/12/2008 - Letto 4279 volte
«Ogni individuo ha diritto, in posizione di piena eguaglianza, ad una equa e pubblica udienza davanti ad un tribunale indipendente e imparziale, al fine della determinazione dei suoi diritti e dei suoi doveri, nonché della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta».

Commento di Antonio Papisca

Immagine dell'Articolo 10 della Dichiarazione Universale dei Diritti UmaniCome per altri articoli, anche in questo caso il Patto internazionale sui diritti civili e politici e le Convenzioni giuridiche sono più dettagliati. L'articolo 9 del Patto, in particolare i commi 2 e 3, stabiliscono che chiunque sia arrestato o detenuto in base ad un'accusa di carattere penale deve essere tradotto «al più presto» davanti ad un giudice e la detenzione delle persone in attesa di giudizio non deve costituire la regola. L'espressione «al più presto» viene ribadita dal terzo comma dell'articolo 5 della Convenzione europea con l'aggiunta che la persona in questione «ha diritto ad essere giudicata entro un termine ragionevole o di essere messa in libertà durante il procedimento».

A queste norme riguardanti il processo dentro gli stati, occorre aggiungere le altre che dispongono che le persone, una volta esauriti i rimedi interni,  hanno il diritto e la possibilità di adire anche i tribunali internazionali competenti a giudicare in materia di diritti umani (Corte europea, Commissione e Corte interamericana, Corte africana dei diritti dell'uomo e dei popoli, Corte penale internazionale, Tribunali internazionali speciali). Come dire, la sfera della giustiziabilità è andata al di là della mera «giurisdizione domestica» degli stati.

Le garanzie qui evocate sono costituite, innanzitutto, dalla reale possibilità che tutte le persone, su un piede di «piena eguaglianza», possano adire un tribunale, che giudichi super partes. Il tribunale deve essere indipendente, in particolare rispetto al potere dell'Esecutivo, e i suoi membri devono procedere in tutta imparzialità. La cosiddetta certezza del diritto è assicurata primariamente dalla magistratura. Siamo in presenza di principi fondamentali dello «Stato di diritto», che prevedono la «distinzione dei Poteri» (legislativo, giudiziario, esecutivo).

Nel sistema democratico, il potere legislativo, esercitato dal Parlamento ha certamente la primazìa sugli altri, ma anche lo stesso Parlamento, nell'esercizio della delega ricevuta dal «popolo sovrano» (democrazia rappresentativa), non può discostarsi dal nucleo duro di princìpi e norme costituito dal Diritto internazionale dei diritti umani, non può insomma disattendere l'obbligo che anche su di esso incombe di salvaguardare i diritti e le libertà fondamentali della persona. In altre parole, e sempre con riferimento ai sistemi politici democratici, quando si tratta di «riformare» il processo e la magistratura occorre aver ben presenti i «paletti» dello ius cogens universale e procedere nell'ottica di garantire, non di condizionare o restringere, la sfera di indipendenza e imparzialità dei giudici. Occorre ribadire, «opportune et inopportune», che la filosofia morale e giuridica dei diritti umani è quella del procedere sulla via del migliorare e del perfezionare, non del regredire.

C'è la garanzia della pubblicità delle udienze: i procedimenti «a porte chiuse» sono, devono costituire delle eccezioni. Faccio notare che in non pochi casi si rende necessaria e utile la presenza alle udienze di delegazioni di osservatori internazionali, soprattutto di organizzazioni non governative quali Amnesty International e Human Rights Watch.

Un'ulteriore garanzia sta nei tempi, che devono essere rapidi (si parla anche di tempi ragionevoli) sia quanto ad apertura dei procedimenti sia quanto ad espletamento dei medesimi. La tempestività, così come l'osservanza dei parametri di indipendenza e imparzialità, dipende sia da fattori obiettivi - buone leggi, codici non farraginosi, organizzazione degli apparati, ecc. - sia da fattori che attengono alle qualità personali dei giudici: senso della legalità, competenza tecnica, rigore morale, incorruttibilità, consapevolezza di esercitare il massimo dei poteri, qualcosa che somiglia, quanto meno metaforicamente, ad un diritto di vita o di morte sulle persone. Per i magistrati occorre una marcia in più: la particolare sensibilità che discende dall'interiorizzazione del codice universale dei diritti umani.

All'interno della scuole di specializzazione forense deve essere dato maggiore rilievo alla conoscenza «interdisciplinare» di questa materia.

Anche in questo campo deve funzionare una pedagogia del giudicare e, come per qualsiasi disegno educativo e formativo degno di questo nome, lumeggiare e seguire l'esempio è essenziale: tra gli altri esempi, che sono numerosi, quello di  Rosario Livatino, il giudice ragazzino assassinato da un commando della mafia il 21 settembre del 1990.

Tutti i magistrati devono essere consapevoli di essere «difensori dei diritti umani», valgono anche per loro le garanzie proclamate dalla Dichiarazione delle Nazioni Unite «sul diritto e la responsabilità degli individui, dei gruppi e degli organi della società di promuovere e proteggere i diritti umani e le libertà fondamentali universalmente riconosciuti». Questa Magna Charta dei difensori dei diritti umani accomuna i magistrati alla schiera dei «persuasi», anche dei più umili, i quali operano per gli ideali di giustizia buona e giusta, riassumibili in: «tutti i diritti umani per tutti».

Antonio Papisca
Cattedra UNESCO «Diritti umani, democrazia e pace» presso il Centro interdipartimentale sui diritti della persona e dei popoli dell'Università di Padova.

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