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Il mio datore di lavoro mi accusa di produrre poco a causa dei permessi lavorativi che prendo. Può farlo?

Pubblicato il 20/03/2014 - Letto 1409 volte
Sono una dipendente comunale, invalida all'80% ed usufruisco di 30 gg di malattia per invalidi civili L. 118/71. Inoltre ho un genitore invalido al 100% con accompagnamento ed usufruisco di 3 gg al mese della L. 104/92. Essendosi mia madre ammalata gravemente ho preso 9 mesi di "aspettativa retribuita per genitore o familiare disabile" D.L.151/2001. La mia Amministrazione mi ha detto che tutte queste assenze ridurranno la produttività a mio carico. In quanto invece di fare il calcolo su 365gg, la mia produttività verrà calcolata su circa 52gg cioè quelli rimanenti dopo aver detratto 9 mesi L. 151/2001, altri 6 gg della legge 104 3gg al mese ed ancora 30gg L.118/71. È corretta questa applicazione?
Annaluce, 49 anni

Risposta

Gentile Utente,
in merito al quesito da Lei posto, La informiamo che la normativa relativa ai permessi e ai congedi retribuiti non fa alcun riferimento ad una penalizzazione retributiva a causa di una presunta riduzione di produttività del lavoratore. Al contrario, le norme sui permessi, sebbene siano state di volta in volta modificate (e talvolta con un approccio quasi "punitivo" nei confronti di chi ne usufruisce), tutelano il lavoratore da un punto di vista economico e contributivo.

La situazione da Lei descritta non è, purtroppo, un caso isolato. In generale, l'orientamento della giurisprudenza in materia tende a considerare un fattore discriminante nella retribuzione del lavoratore la presenza di premi di produttività, quando solo legati alla presenza fisica del lavoratore sul posto di lavoro e non agli obiettivi da questi raggiunti. Questo modo di calcolare la produttività, quindi, è discriminatoria poiché questi (che abbia o meno una disabilità), dovendo provvedere alla propria salute e/o assistere un familiare, sarà chiaramente presente al lavoro un quantitativo di tempo inferiore rispetto ai colleghi che non hanno quest'incombenza.

Dal momento che la produttività non può costituire un motivo di disparità di trattamento a tutto svantaggio del lavoratore con disabilità (e/o di quello che si prende cura del familiare con disabilità), a tutelare il lavoratore discriminato si pone il Decreto legislativo n. 216 del 9 luglio 2003 [link a pagina esterna], una disposizione di attuazione della Direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.

Nell'articolo 2 del suddetto Decreto n. 216/2003 è vi è una distinzione tra «discriminazione diretta» e quella «indiretta»; vi è discriminazione diretta «quando [...] una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un'altra in una situazione analoga» (comma 1, lett. a); vi è discriminazione indiretta «quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone […] in una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone» (articolo 2, comma 1, lett. b).

Il lavoratore che ritiene di essere vittima di una discriminazione può ricorrere alla magistratura, avvalendosi di un avvocato esperto di diritto del lavoro, per ottenere la cessazione del comportamento illegittimo. Sarà quindi il giudice, qualora accolga il ricorso ad ordinare «la cessazione del comportamento, della condotta o dell'atto discriminatorio, ove ancora sussistente, nonché la rimozione degli effetti», e può disporre, al fine di impedire la ripetizione delle discriminazioni, l'adozione di un piano di rimozione delle discriminazioni accertate (articolo 4, commi 5 e 7).


Nella speranza di aver fornito una risposta chiara ed esaustiva, inviamo cordiali saluti,
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